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martedì 30 novembre 2010

Voglia di infinito? Guarda la terra

Provate a guardare le stelle. Sarà come intraprendere la risalita del tempo. Perché gettare uno sguardo allo spazio significa aprire il proprio orizzonte al passato e percepirlo in tutta la sua smarrita estensione. Eppure quelle stesse stelle, apparendoci non come sono al presente, ma com'erano milioni di anni fa, perché la luce per darcene un'immagine dovrà percorrere miliardi di chilometri trafiggendo di raggi una tenebra totale e totalizzante, loro stesse, le stelle, con questa loro illusoria vicinanza ci disorienteranno. Ci renderanno tutt'a un tratto pericolosamente consapevoli della nostra solitudine. Del nostro anonimato senza menzione e senza singolarità, perpetueremo un disperato tentativo di guadagnare una centralità e ci troveremo semplicemente altri, espressione di ulteriori diversità. Ed ecco che non ci sentiremo più uomini, ma soltanto abitanti della terra. Terra. Un pungo di roccia costretto nella sua lenta fluttuazione, imprigionato ad un'orbita di inerzia e di luce,un mezzo sospiro in un urlo di oblio, sospeso tra il nulla e l'addio. Allora ridurremo i nostri sogni alla luna e le nostre speranze ad un sole già troppo lontano. Ci sentiremo svuotati del senso di tutta una vita e ci vedremo d'improvviso ancorati ad un'assenza di sogni svuotata del suo futuro e smarrita. Sentiremo il mondo come un limite e questo limite ci condannerà ad una angosciosa insofferenza. Ma forse avremo soltanto sbagliato a guardare. Forse dovremmo cambiare prospettiva. Saliremo, allora, per un istante, sulla luna. E poi ci affacceremo su quel grande nulla che sarà divenuto Universo. Davanti a noi sorgerà un grande occhio azzurro, misto di mare e di cielo, ci inonderà della luce riflessa dal sole che sembrerà un po' più vicino; emergerà dal buio come una trascendente elevazione, ci toglierà il respiro e ci soffocherà d'emozione. Immensa, assoluta, allora avremo guardato la terra. Avremo un nuovo volto in ascolto per cui sognare e cui sussurrare il nostro destino. Allora, avremo compreso l'infinito. Avremo pensato che, in fondo, il mondo ha la sua eternità, che è un pianeta un po' assurdo, dalla desolazione gridata e dalla silenziosa grandiosità. E troveremo negli oceani un'opportunità, e nelle nuvole che li circondano tutta la nostra perduta libertà. In quel momento, di nuovo, guarderemo le stelle. Aggrappati alla luna, trascinati dall'universo e dalla sua espansione, finalmente saremo parte di loro. E ci libereremo dal tempo, perché non avremo confini. Acquisteremo la consapevolezza di non avere soltanto realtà, ma anche infiniti possibili. L'eterno ci sovrasterà e ci incastonerà in una pausa di esistenza, in cui ci sarà posto per ogni nostra fantasia e tutti i sussulti della nostra incoscienza. E il mondo sarà là, a compiere la sua traiettoria, come un monito dell'ultima ora, una presenza a tratti assente e tuttavia consistente, pronto a riempire, giro dopo giro, un'altra pagina di storia. E quando cercheremo risposte nel cielo, sprofondando laiche preghiere in una notte estrema, non avremo più nessuna luna. Ma solo terra. Terra piena.  

mercoledì 24 novembre 2010

Ho preso la scossa!!!

Ho preso la scossa. Dico sul serio, l'ho presa. Questo spiega tutto, la schizofrenia imminente, la mia grande abilità nel dare i numeri la mia voglia di parlare parlare parlare.
A parte gli scherzi, non ho preso la scossa, ma è quello che farò a breve per studiare il fenomeno della macchina di Faraday o per vedere sulle mie dita comparire le piste di elettroni.
O forse per il mio compleanno... spegnerò le candeline con un fascio di elettroni! Impossibile? Sbagliato! Prendete un oggetto appuntito, magari a forma di stella. Caricatelo elettricamente e con intensità molto elevata. Ora accostatelo alla vostra torta illuminata dalle vostre bellissime candeline. Ecco, si spegneranno! Infatti le cariche elettriche tendono a concentrarsi nelle zone acuminate o appuntite, in generale nelle estremità e il loro alto tasso di concentrazione fa sì che esse sfuggano in quello che viene abitualmente definito "vento elettronico", dall'intensità sufficiente a far spegnere una candela.
Quindi, un'idea originale per il vostro compleanno... non sprecate fiato ma accendete la luce!

venerdì 19 novembre 2010

Tagli alla scuola pubblica e fondi alle scuole private? Questa è l'Italia.

Non c'è limite al peggio. Affermazione forse abusata, poco orginale ma, purtroppo, sempre molto attuale e vera. Sto pensando a quello che succede al giorno d'oggi in Italia, al nostro governo e alla condizione delle nostre scuole e della ricerca. Sto pensando alle migliaia di studenti brillanti che si ritrovano disoccupati o impiegati in lavori che non hanno nulla a che vedere con la loro formazione e le loro aspettative. Sto pensando ai finanziamenti che il Ministero dell'Istruzione ha dato alle scuole private tagliando nello stesso tempo i fondi alle scuole pubbliche. Un atto inaudito e assolutamente inaccettabile in una condizione di crisi come quella in cui versa il nostro paese. Se prima la Costituzione veniva regolarmente ignorata, adesso addirittutra viene infranta. La carta costituzionale è carta straccia. E la stessa sorte si prospetta per la scuola italiana. Laborartori inesistenti, università semideserte e abbandonate, classi fatiscenti, docenti sottopagati. E studenti disillusi, e insegnanti frustrati. Se è vero che i soldi mancano, i milioni di euro dati agli istituti privati non vengono giustificati. Compito di uno stato è quello di sostenere la sua scuola, i suoi studenti, i suoi cittadini. Perché sono gli studenti che fanno lo Stato. E' la cultura che rende forte una nazione. Tagliare nell'istruzione e nella ricerca  è non solo insensato, ma anche autodistruttivo. Deleterio, folle. Ma, d'altra parte, questa è l'Italia. Questa la nostra istruzione. Questo il futuro dei giovani. Deludente, e il presente non lascia ben sperare.

venerdì 12 novembre 2010

Buona apocalisse

Quando si inizierà ad amare
forse verrà la fine del mondo e un grande sogno espanso
durerà tutta la terra.
Una placenta di speranze ingoierà le nostre attese
fino a farle derivare
come una estrema Africa per un arcipelago di idee
nel suo naufragio.
Viviamo di illusioni, e tutto
è un anno-luce
la dimensione è quella di un orizzonte
slimitato senza altre bandiere.
                                                      Siamo tutti assurdi
                                                      legati a un vuoto d'ombra e a vortici di cenere.

domenica 7 novembre 2010

Pietre sospese e sogni di nuvole

Non ho mai creduto nelle fiabe. Ma ho sempre desiderato farlo. Lo stupore è qualcosa che nella nostra società, nel nostro mondo nostro malgrado ci sfugge. Abbiamo l'illusione di avere sempre una risposta che, anche se non conosciamo, possiamo in un modo o nell'altro trovare. La scienza è una forma di precaria sicurezza e la vita una certezza che ci toglie persino la speranza. Ogni mattino è come una ripetizione stanca di un ritornello infranto che ha perso tutte le sue parole. Un po' come la pioggia, con il suo suono sterminato che riempie di  silenzi malinconici la terra. Forse ci manca la metafora, il sogno, quella dimensione di assurda fantasia che ci strappi da un presente troppo palesato e congelato nella sua chiarezza ed esemplificazione. Perché in fondo l'illusione è una speranza e la speranza è l'attesa di una sorpresa desiderata e al tempo stesso improvvisa che ci fa sopravvivere. L'uomo ha bisogno di sognare e l'immaginazione è il mezzo per raggiungere il sogno, per imparare a vedere nella nuvola non il preludio contratto di un fulmine e di un tuono e nemmeno il volto di un grande dio nascosto pronto a punire e perdonare, piuttosto qualcosa di magico e diverso, talmente inaspettato da farci sussultare e sgomentare. Un masso enorme e sospeso tra il cielo e l'invenzione, un po' come nei quadri di Magritte densi di una poesia senza fisica o altra regola, soltanto intrisa fino all'osso di immensa sensazione. Un mare che è solo un abisso sconfinato senza fondo. Perché, per dirla con le parole di Einstein, L'immaginazione è più importante della conoscenza: la conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo.

sabato 6 novembre 2010

Disordine è natura. Fare ordine, un miracolo.

Può sembrare strano, ma è così. La natura tende al disordine. E in maniera perlopiù irreversibile. Con il passare del tempo, le situazioni di caos continuano ad aumentare, prospettando un futuro a dir poco confusionario. E il tutto in parallelo ad un'espansione costante dell'universo, dove ogni cosa si allontana progressivamente dall'altra. La cosa davvero affascinante (o inquietante, per gli amanti dell'armonia e del rigore), però, è il fatto che l'atto stesso di mettere in ordine in un determinato luogo, atto che comporta l'intervento di un lavoro esterno (il nostro) e che agisce in maniera contraria al secondo principio della termodinamica, genera un aumento immediatamente conseguente di disordine in un qualunque altro punto dell'universo, sia pur esso anni luce lontano da noi. L'ordine che facciamo è dunque fittizio, un'illusione. Questo significa che non c'è nessuna probabilità che avvenga spontaneamente il contrario, e cioè che la natura decida a un certo punto di mettere un po' a posto? Nessuna no, ma certamente pochissime. Un numero infinitamente piccolo, tuttavia, non vuol dire uno zero. Quindi si può verificare nell'arco di tempi estremamente lunghi, di cui quindi l'essere umano nella sua breve vita non può fare esperienza diretta, che ci sia anche un solo piccolo istante in cui queste minime probabilità si concretizzano e in cui, ai più fortunati che hanno occasione di imbattersi in un simile evento, capita di osservare un piatto ricomporsi dai suoi cocci infranti al suolo. O una certa quantità d'acqua trasformarsi in vino. Qualcosa di inspiegabile, dunque, e apparentemente assurdo. Quello che gli uomini, per questi motivi, hanno definito "miracolo". Eppure, se noi vivessimo millenni, non avremmo forse bisogno di santi, né di invenzioni, né di divinità. Tutto quello che ora ci pare miracoloso sarebbe soltanto una bella rarità.

lunedì 1 novembre 2010

"Piccola ape furibonda"

Un anno fa moriva Alda Merini, forse la più grande poetessa italiana degli ultimi anni, ma io non scrivo per commemorarla. Io non credo negli epitaffi. Io credo nella riconoscenza e nell'onestà di giudizio. Alda Merini moriva un anno fa sola, senza nessuna forma di sussidio, in un sottoscala ai bordi del Naviglio, dimenticata. Nelle librerie le era dedicato un barlume di scaffale, le sue poesie giacevano polverose e inascoltate. Soltanto la sua morte è riuscita a suscitare la nostra attenzione. Il suo grido, per settanta lunghi anni, è restato sospeso nell'indifferenza e nell'ignoto. L'Italia è una patria sorda, forse distratta, che si ricorda dei suoi eroi solo per inginocchiarsi al loro altare. I nostri politici dispensano solo articoli postumi e funerali di stato. Alda Merini, poetessa dal cuore grande e dalla forza espressiva immensa, che oggi è simbolo di un'eccentricità magica e drammatica, prima lo era soltanto di una pazzia fastidiosa e incompresa. La sua storia, invece, è l'emblema della nostra ipocrisia. Le verità sono scomode da accettare e Alda Merini non faceva che questo, annunciare la sua verità come una laica parola evangelica. E' stata la Francia a candidarla al premio Nobel. E' stata la sua solitudine a denunciarci e accusarci quando ci ha lasciato. Noi siamo stati soltanto quelli che l'hanno fatta soffrire, quelli che le hanno insegnato a morire in manicomi intestarditi e assassini. Sempre noi, quelli che le hanno negato la fama che si sarebbe meritata e che l'avrebbe consolata, quelli che avrebbero dovuto consacrare il volo di lei, piccola ape furibonda, e che invece l'hanno martirizzata.