Il 17 febbraio 1600 moriva Giordano Bruno. Condannato al rogo dalla Chiesa perché credeva nell'infinità dell'universo e dei mondi, perché aveva compreso che la terra ruotava. Ucciso per aver detto la verità. E per esserle stato fedele, sempre, fino all'ultimo. Giordano Bruno moriva 411 anni fa per la verità. Moriva per la scienza. Ora, quattro secoli dopo, lo ricordiamo, ma forse non lo seguiamo abbastanza. Ne rispettiamo la memoria, è vero, gli diamo ragione, ma quello che ancora ci manca è una radicale indignazione. Perché in fondo il suo esempio, noi non sappiamo seguirlo, perché rinunciare a noi stessi per il credo del mondo, non abbiamo la forza di farlo. Perché siamo ancora condizionati da dogmi ed etiche artefatte nelle nostre scelte e nelle nostre azioni, senza capire che i veri martiri sono gli uomini che muoiono per la verità, non per un'opinione. Che la vera morale non ha un testo sacro e nemmeno una qualunque forma di autorità. Perché non uccidere un uomo è una legge che non ha bisogno di tribunali che ne garantiscano la validità. Non ci saranno inquisizioni. Anche senza croci, saremo santi tutti. Sarà l'onestà intellettuale ad salvarci, e il segno che avremo lasciato nel mondo arricchendolo, sarà la vita eterna. Perché, dopotutto, Giordano Bruno rivive giorno per giorno, chi lo ha condannato si è perso nelle esequie del mondo. E la sua parola conosce soltanto futuro, per lei non esiste passato. La Chiesa ha saputo soltanto temerlo senza averlo mai ascoltato, e forse ha ragione Pasolini quando dice che "La chiesa / è lo spietato cuore dello stato".
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