Etichette

Cerca nel blog

domenica 31 ottobre 2010

Giro Vizioso alla Escher

La scelta mi uccide. Mi annienta. Perché scelta significa anche rinuncia e io non ho mai saputo rinunciare. Non credo sia per mancanza di inibizioni. O comunque, non solo per questo. Penso, piuttosto, sia per una qualche angoscia nascosta che si traveste di onnipotenza e si trova ogni volta disillusa. Noi tutti, giovani soprattutto, finiamo con lo scegliere. Diciamo di essere liberi, ma in realtà siamo prigionieri di quello stesso futuro che chiamiamo libertà. Non possiamo sfuggire al futuro, questa è la verità. Il passato ci sfugge. La morte comincia con l'università, proprio quando abbiamo la convinzione di essere all'apice della nostra forza, della nostra autonomia, dei nostri diritti. Tutto è una grande illusione. Così stanno le cose. Io non sono più in grado di scegliere perché non lo sono mai stata. Ci hanno dato la precisione del singolo per toglierci lo sguardo d'insieme. E questo è il primo modo per controllarci. Perché il giudizio non vive senza un'idea di completo e la creatività si spegne con il rigore. In un certo senso, è un po' un giro di Escher, un vagare vizioso che non ha più uno scopo né una missione. Noi possiamo soltanto cambiare verso, ma non più direzione.

mercoledì 27 ottobre 2010

MenteMalataAffittasi

Il mercurio è un metallo malato
Non mangiare il mercurio nel buio
non ti darà fosforescenza
la pressione si vive al mercurio
un istinto di convalescenza misurerà qualche ombra di grado
con gradini di sguardi bruciati
hai un appiglio chiamato sgomento
e fibrillazioni deluse sbancate dal vento

sabato 23 ottobre 2010

A Single Man

E adesso parliamo di cinema. Anzi, del cinema. Perché "A single man" è cinema con la C maiuscola, grande cinema per intenderci. Uno di quei film che racconta tutto in poche parole. Scene semplici, quasi abbozzate, con una discrezione vagamente annebbiata di distacco e di abbandono, un po' come George Falconer, il protagonista, l'eroe, l' "uomo solo". O, piuttosto, solitario. George è immerso in una tragedia tutta sentori e sentimenti per cui cerca un epilogo. Una trama, ormai, non gli interessa, nuovi intrecci, non lo riguardano. La morte gli ha sottratto l'amore e il pensiero della morte la vita. Si barcamena tra oblio e incertezza, tra ricordi invecchiati e affetti interrotti sul nascere. Il suicidio è la forma di una nuova salvezza.   E, arricchito di un valore tutto sacrale, viene preparato, assaporato, alimentato. Una sorta di laico calvario ad una sconsacrata crocifissione. Ha il sapore di un rifiuto, più che di una resa. Di disprezzo per una società   retta da misantropia e paura, un'umanità perdente. E poi, l'incontro. Nessun amore esagerato, all'orizzonte, nessun "vissero felici e contenti". Semplicemente, un incontro. Ed una grande fine, forse la più sincera, né lieta né drammatica. Magari inaspettata, sicuramente vera.

giovedì 21 ottobre 2010

The Wall

Forse gli appassionati si chiederanno, non senza una certa irritazione, perché io abbia inserito un post su "The Wall", il celebre album dei Pink Floyd, sotto il nome di "Poesia". Forse non se lo spiegheranno e non se ne faranno mai una ragione. Eppure c'è un senso. Quell'album è poesia. Ogni nota è nello stesso tempo idea e significato. Tutto è come un unico strumento come un grido grande ed estremo che dura tutto un fiato. E il muro è un orizzonte. O forse l'orizzonte, una frontiera da abbattere e sfondare. C'è, in ogni brano, l'angoscia crescente dell'ignoto, è come una pulsione viscerale e confusa che spinge all'oltre senza però riuscire a eludere il freno dell'ignoto. Il muro è la fuga e un interrogativo. Is there anybody out there? , recitano le parole. Rimangono senza risposta. Perché in fondo, il muro non è altro che un limite, al di là del quale ci può essere una nuova, soltanto più lontana, prigione. Abbattere il muro è un simbolo, è gettarsi alle spalle un passato in un rinnegamento totale. Ma non significa, automaticamente, scegliere un futuro. Di questo, infatti, non c'è certezza. Tutto è un grande azzardo. Andarsene diventa piuttosto il tentativo di saldare gli affetti del presente rendendoli parte di un nuovo, artificiale passato. E lo si legge tra le righe di Mother in cui si ha la sensazione di un addio essenziale ad una forma altra di amore. Non c'è né disillusione né speranza. Solo azione e rifiuto e desiderio. E l'epilogo ha per musica una pioggia. E nessun arcobaleno.


Pink Floyd - The Wall - Mother

domenica 17 ottobre 2010

Slava, pagliacci e dinamo stellari

Un pagliaccio, ti hanno detto. Il pubblico viene coinvolto, questo ti ha anche un po' inquietato. Ed in effetti il coinvolgimento c'è, ma su più piani. Ora è una musica possente e trascendente, che ti riempie nervi e cuore di una dimensione drammaticamente magica, ora è una ragnatela che ti avvolge e ti sommerge in un onirico trapasso. E poi, sempre, in ogni istante, il suo sorriso, non quello della maschera da clown senza espressione e sentimento, ma quello dei suoi gesti, della sua mimica, del suo anelare ad un sogno altro e sconfinato che lo sottragga ad una realtà di solitudine e abbandono. Slava è il nostro emarginato, il giocoliere del proprio destino, il vagabondo che scherza col mondo e ne dà una sua versione. Slava è la solitudine senza radici di cui abbiamo paura, il volto contratto in una smorfia di inquietante sghignazzo che fa rabbrividire e sorprendere a un tempo. L'apolide senza sostanza che trova in un cappotto svuotato l'allegoria del proprio bisogno d'amore. Il surrealista che cavalca la sua poesia tempestosa su un letto di ferro e per remo una scopa, che apre i battenti del tempo per scaraventarsi in un viaggio senza quando né dove. Slava trova la sua laica ascensione in una tempesta di carta e di luce, in una grande, immensa dinamo stellare, piena dei suoi lirismi e delle sue esplosioni, in un grido che ha in sé ogni speranza e tutte le invocazioni. In una cascata di sterminati e colorati palloni.

giovedì 14 ottobre 2010

Tutta colpa della parafrasi

Uggiosa mattina di novembre. Una classe fredda che ospita persone altrettanto fredde e contrite. Un professore seduto alla cattedra che si domanda silenziosamente il perché delle sue lezioni. Gli studenti che, altrettanto silenziosi, condividono il dubbio. Dante, il grande Dante, il sommo poeta. Poeta, appunto. Non prosatore. Eppure si finisce sempre per rendere il poema una grande omelia senza ritmo nè versi. Tutta colpa dei professori? Degli alunni disinteressati? Della nebbia milanese? Io direi, piuttosto, tutta colpa della parafrasi. Perché parafrasare? In fondo Dante è italiano, in fondo la bellezza della Commedia sta nella lingua e nella ricerca lessicale che, riletta in una chiave semplicistica e semplificata, si perde del tutto, e quello che ci resta è un astruso e filosofeggiante viaggio ai confini del mondo e del tempo. Qualcosa che, giustamente, non può che apparire noioso, o comunque distante, lontano. Dante tocca i cuori dei lettori con le parole crude e rabbiose dell'inferno, con le sue sterpi che diventano "bronchi" lasciando trapelare un'angoscia esistenziale e tutta umana. La parafrasi è il disperato tentativo di rendere la poesia prosa. Ma la prosa è la morte della poesia. Perché la prosa, in quanto tale, associa alla lingua la potente arma del messaggio e del significato, la poesia associa al messaggio la potente arma della lingua. Rendete una poesia prosa, e avrete il relitto di un capolavoro. Un albero spoglio, una montagna cava. La bellezza della poesia sta, a volte, anche nel suo non essere del tutto compresa. Nell'ombra di mistero che ci induce ad intraprendere l'inconscio viaggio dell'interpretazione. E per Dante ciò vale più che per tutti gli altri poeti. Non sono le digressioni di astronomia e le sante parole della fede ad aver reso la Commedia uno dei maggiori capolavori. Sono le urla dei dannati, le preghiere dei pentiti e le estasi dei beati; le loro parole tormentate e l'umanità dei loro insulti. Perché la Commedia è il viaggio dell'uomo. E' la legge del mondo, dei Sommersi e salvati.

lunedì 11 ottobre 2010

Basta viverlo

Una delle poche cose che danno davvero soddisfazione nella vita è avere la consapevolezza di dare un contributo e di fare qualcuno felice. Non importa chi sia il destinatario del nostro aiuto e nemmeno chi sia questo qualcuno, quello che conta è trovare un senso nelle azioni. Non so nemmeno perché io stia scrivendo questo post, non so nemmeno cosa davvero io stia facendo che giustifichi questi pensieri. Ma forse la forza del nostro mondo, per molti aspetti contraddittorio e pieno di errori, criticato e deludente, invaso da mass media e da comunicazioni troppo veloci e spersonalizzate, questo nostro mondo che i vecchi chiamano superficiale e i giovani senza speranze, la sua forza, dico, sta proprio in questo, nella potenza di un'informazione che giunge in tutte le case e di una parola che ha la vitalità della divulgazione. Nella condivisione. Forse questo mondo può farci sentire meno soli. Basta viverlo.

domenica 10 ottobre 2010

L'Urlo

Mi decompongo in cerchi di parole.
Il mio orizzonte è una savana aguzza
che mi abbaglia.
Ho onde di respiro,
che vibrano un richiamo.
E un grido sfigurato. E il viso in una mano.

MB

sabato 9 ottobre 2010

Moduli, Einstein, e cose complicate.

Viviamo in un mondo di menti semplici che irretiscono trame sempre più contorte e inutilmente complicate in cui si intrappolano. La nostra è l'era del formalismo. E dei moduli. Ci si vuole scrivere a un'università, bisogna mandare richieste su richieste, dati su dati, raccontare tutto, da quel bellissimo giorno in cui si è nati, a come si trascorre il sabato sera quando piove. Il che va a discapito della lucidità e dell'efficacia. Le grandi verità non sono mai troppo complesse. Non sono nemmeno soluzioni semplici. Sono le più semplici. La scienza, dalla chimica alla fisica, si regge su modelli idealizzati forse, ma fondati sull'estetica della linearità e della limpidezza. Non sempre la soluzione più semplice è quella più immediata. La semplicità, paradossalmente, è in un certo senso la cosa in assoluto più difficile. Forse perché è lontana, forse perché ha quel grado di assoluta perfezione che ce la fa sembrare impossibile. E non mi resta che concludere con le parole di Einstein, per cui la filosofia e la scienza furono sempre una cosa soltanto e il mondo una grande magia da dimostrare: "Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la realizza."
Forse è giunto il momento di essere anche noi un po' più sprovveduti.

I prigionieri cantano

Non ho pensieri.
Siamo tutti anime dolenti e abbiamo come criterio
il pentimento.
Io, non parlo.
Mi rincrescono le voci delle celle
che mimano amnistie
con morte piastre mute.
Abbiamo speso un sogno.
Adesso siamo soltanto ombre di epoche vissute.

M. B.

giovedì 7 ottobre 2010

Stavo pensando alla democrazia ...

Stavo pensando alla democrazia. La democrazia si basa sulla libertà e sulla partecipazione. La democrazia si basa sull'uguaglianza. Attualmente noi votiamo ma non partecipiamo. Il diritto di voto ha assunto ormai le fattezze di una gentile concessione che il potere ci ha dato per controllarci. Ciò che dovrebbe garantire il nostro pieno coinvolgimento nelle vicende governative è proprio la cosa che ci impregna di tutta la sua ipocrisia. Lassù, dove l'uomo semplicemente cittadino non potrà mai arrivare, lassù hanno adottato una strategia che, a malincuore, ammetto essere vincente: ci danno la scelta, ma ci tolgono le opzioni. Lo so, è paradossale, ma se si candidasse da ciascun fronte politico un potenziale sovrano, noi lo voteremmo. Con quello stesso diritto di voto che dovrebbe tutelare la sovranità popolare, noi eleggeremo la nostra nuova dittatura. D'altra parte siamo noi che abbiamo permesso tutto ciò. Noi, con i nostri sbagli. Siamo noi che di sera accendiamo la televisione e guardiamo programmi senza cultura e senza pensiero rimpinguando le casse di imprenditori che "al posto del cuore hanno salvadanai", per dirla con le parole di De André. Siamo  noi che leggiamo letteratura commerciale accontentandoci di un non sapere che si spaccia come divulgazione proletaria. Noi abbiamo commesso il grande errore della superficialità e adesso ne stiamo scontando la pena. Siamo stati stupidi e adesso siamo nelle mani di chi è stato più intelligente, ma nella maniera sbagliata. L'intelligenza ha due volti. Anche tra i geni ci sono sempre stati i buoni e i malvagi. Dobbiamo riscoprire una nuova saggezza. Prima però, ci serve una consapevolezza.

mercoledì 6 ottobre 2010

Arte o Storia dell'Arte?

Io amo l'arte. Ma non la storia dell'arte. E' vero che le opere vanno inserite nel loro contesto storico-culturale, ma è anche vero che ognuna di esse è portatrice di un significato forte e ben determinato di per sé. I capolavori, quelli che sono davvero tali, sono senza tempo. Trascendono ogni epoca e barriera cronologica. Chiunque leggendo Foscolo o l'Infinito di Leopardi non può restare impassibile ed inerte, ma viene preso da una sospensione lirica e drammaticamente inconsapevole anche non avendo mai studiato l'ottocento o il romanticismo. I classici sono senza età. I classici vanno oltre. Perché portano un messaggio universale in cui si può riscontrare ogni fruitore, a prescindere dalla sua esperienza esistenziale e dal suo presente. I classici, nella pittura come nella letteratura, commuovono e sorprendono senza bisogno di precedenti o di contestualizzazioni, bastano a loro stessi. Il gruppo del Laocoonte continuerà sempre ad esprimere la sua ardente passione e l'Odi et Amo di Catullo non cesserà mai di essere icastica metafora di ogni amore e della sua contraddizione. E questo al di là di tutto. Di ogni analisi e di ogni lezione.

Urlo

Uno di quei film su cui si sentono all'uscita dal cinema i commenti più disparati. Uno di quei film che la gente un po' superficiale e non troppo sensibile giudica noioso. Un grande film, ma complesso. Un grande film su un capolavoro della poesia moderna. Tre piani narrativi, tematiche profonde ed eticamente contorte, tanta poesia. Ginsberg pubblica "Urlo" negli anni del secondo dopoguerra e deve fare i conti con una società che mira al nuovo ma ancora fortemente legata ai canoni del passato. Con una letteratura forse non ancora pronta a uno sconvolgimento lessicale e contenutistico radicale che la stravolge nei suoi fondamenti più antichi e fino a poco prima inattaccabili. Ci sono parole dure, una trivialità ardente che ritrae il mondo nella sua cruda inadeguatezza. Si gioca con il sacro per renderlo un tripudio di invocazioni blasfeme. Si consacra il profano per farne la bibbia di una nuova generazione. Una Beat Generation prorompente e impertinente, sempre giovane e insaziabile, con un germe di vecchiaia nel suo decadentismo trascendente. La lotta del poeta è in ogni verso. Il grido della sua emancipazione in ogni immagine. Si profila il volto di un'America chiusa e al tempo stesso preda di un cambiamento inarrestabile. Un'America in cui l'omosessualità è una colpa e dove infrangere i canoni è un delitto angoscioso, eppure necessario. L'inevitabilità della parola si confronta con il conservatorismo del potere. Urlo è un libro "immondo" e deve essere condannato. Il cittadino, vedendosi riflesso in un inno alla sua umana e ferina grettezza, ripara in una laica inquisizione. Intellettuali e potere, tradizione e riforma, ordinarietà e rivoluzione. E il tutto con voli pindarici e animazioni oniriche sullo sfondo. E la guida pazientemente combattiva dell'autore che, in un'intervista che lascia in chi l'ascolta spettacolo e emozione, dà una ragione dell'eccesso e smaschera la verità del mondo.
Urlo - Il trailer del film

martedì 5 ottobre 2010

Il volto della guerra

Il volto della guerra è senza fiato.
Sulle labbra ha un grido d'ombra e il fossile di un bacio.
Ha un paio di occhi chiusi che chiedono
di esser ciechi.
A illuminarli è l'ombra di sogni vuoti e spesi.
Un cielo rarefatto di strazi e di perdoni.
E tra i denti desolato un pianto di abbandoni.
Dalì - Il volto della guerra

M.B.

Scienza estetica e acqua sferica

E poi non mi vengano a dire che la scienza non è arte. E che le materie scientifiche non hanno nulla a che vedere con quelle umanistiche. La scienza è estetica. La natura è estetica. E infatti l'arte si è sempre ispirata alla natura. Esempio evidente sono le forme che organismi e sostanze tendono ad assumere. Pensiamo a qualcosa di perfetto: ad un cerchio, ad esempio. Ora trasliamolo in un piano tridimensionale e rendiamolo "sfera". Bene: cosa c'è di più estetico e calibrato di una sfera? Nulla, o molto poco. E adesso pensiamo all'acqua. Un infinito numero di atomi di ossigeno e di idrogeno. Disordinato? Caotico? Assolutamente. E, guarda un po', non solo in essa vige un ordine preciso e inderogabile, ma le gocce d'acqua sono sferiche. O comunque tendono alla sfericità. In un litro d'acqua ci sono miliardi di miliardi di gocce. E tutte condividono la loro eterea perfezione. Sono quasi trascendenti. Chiedersi la causa che determina una così grande precisione è legittimo: ebbene, può sembrar strano, ma si tratta esclusivamente di un gioco di forze d'attrazione. In un liquido, infatti, le molecole interne al fluido subiscono l'azione di tutta una serie di forze esercitate dalle molecole vicine. Per ragioni di simmetria le forze si annullano tra loro e sono in uno stato di equilibrio. Una sorte un po' diversa spetta però alle molecole che si trovano in superficie: esse infatti per metà sono esposte all'esterno e non subiscono alcuna forma di attrazione, se non dalle molecole sottostanti o laterali. Il liquido, quindi, tende ad assumere la forma che consenta di avere la minore area superficiale. E cosa meglio di una bella sfera? Nella sfera la superficie di contatto è minima rispetto agli altri solidi a parità di volume. E quindi viene preferita alle altre. Se questa non è arte, non avrei davvero altre parole per darne una più efficace definizione.

lunedì 4 ottobre 2010

A Stoccolma si deve chiedere il permesso del Papa ...

4 Ottobre 2010: Robert Edwards riceve il premio Nobel per la medicina per la scoperta e lo sviluppo della tecnica di fecondazione in vitro. Riconoscimento assolutamente meritato e del tutto giustificato. Questa è l'opinione comune o, almeno, lo dovrebbe essere. D'altra parte, perché non premiare uno scienziato che ha permesso con le sue ricerche alle coppie sterili di avere figli e di esaudire il sogno di molte aspiranti madri? Ma il Vaticano non ci sta. La sua reazione ha un tono di protesta quasi indispettito. "Sono state ignorate le problematiche etiche". Etica. Di fronte al progresso la Chiesa non dice altro che questo: Etica. Ma cos'è davvero quest'etica di cui tanto si sente parlare, di cui vescovi e politici si riempiono la bocca perdendo l'opportunità di molti e più utili silenzi? A rigor di logica l'etica è lo studio dei comportamenti umani e l'analisi dei costumi. Analisi che, con il corso della storia, si è arricchita di tutto un complesso ed inevitabile sostrato morale. Ma per discutere in ambito etico bisogna avere dei principi da difendere. Avere una tesi è il punto di partenza per ogni tipo di argomentazione. Il Vaticano una vera tesi sembra quasi averla persa in un avvicendarsi di febbrili e sconnesse recriminazioni. Si era opposto all'aborto nella ferma convinzione che spettasse solo a Dio il diritto di disporre della nostra esistenza, nascita compresa, e poi aveva condannato l'eutanasia che, nella maggior parte dei casi, è un po' come un aborto ma al contrario. La sola differenza è che ad essere imposta è una non-vita, nel caso dell'aborto una non-morte. Adesso si scaglia contro la fecondazione artificiale, quando fino a poco tempo fa ha condotto una tenace campagna contro la contraccezione perché precludeva a potenziali bambini di venire al mondo. La fecondazione in vitro, in un certo senso, fa nascere bambini che altrimenti non potrebbero nascere. Dona la vita là dove è negata. Dov'è il male? Dove il peccato? Dove lo scandalo che destabilizza la Chiesa? Tuttavia credo che, prima di dare una risposta a queste domande, sia necessario una volta per tutte sciogliere un gran dubbio, uno di quei dubbi storici e dal valore quasi esistenziale, un dubbio che assilla l'uomo da ormai duemila anni: "Esiste Dio o la Chiesa?". Per ora, di Dio nessuna traccia, della Chiesa un tradizione senza tempo di demagogia e di corruzione.

Levi, MINIMAL e Poesia

Vi è mai capitato di aprire un giornale e di leggere articoli contorti ed ermetici, traboccanti di figure retoriche e di metafore spesso forzate, con parole direttamente mutuate dai romantici dell'800 e frasi che durano una ventina di righe con un solo punto e, quando si è fortunati, un paio di virgole?
O di leggere incipit di romanzi con sezioni descrittive di una decina di pagine, irte di fronzoli e manierosi artifici, che si dilungano in contemplazioni di cieli banalmente scuri e stellati?
A me sì, e anche molto spesso. Questo, signori, non è saper scrivere. Questo è uno sfoggio intellettuale ed erudito fine a se stesso. Il vero stile è agile, sferzante e in un certo senso quasi nervoso. Come una serie di fotogrammi. Colloquiale a tratti, ma mai scadente. Intuitivo ma non banale. Lo stile di Carlo Levi, insomma. O di Saramago. Aprite la prima pagina di "Cristo si è fermato ad Eboli" e non potrete far altro che rimanere sconvolti di fronte ad un'immediatezza espressiva tanto sconvolgente. Quasi lapidaria. Siamo nell'epoca dell'essenziale e dell'effetto. Delle pubblicità  e delle comunicazioni. L'epoca "minimal", per dirla come un mio amico impiegato nel design. Quello che serve è eleganza. Essenza. O forse, poesia.