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Un pagliaccio, ti hanno detto. Il pubblico viene coinvolto, questo ti ha anche un po' inquietato. Ed in effetti il coinvolgimento c'è, ma su più piani. Ora è una musica possente e trascendente, che ti riempie nervi e cuore di una dimensione drammaticamente magica, ora è una ragnatela che ti avvolge e ti sommerge in un onirico trapasso. E poi, sempre, in ogni istante, il suo sorriso, non quello della maschera da clown senza espressione e sentimento, ma quello dei suoi gesti, della sua mimica, del suo anelare ad un sogno altro e sconfinato che lo sottragga ad una realtà di solitudine e abbandono. Slava è il nostro emarginato, il giocoliere del proprio destino, il vagabondo che scherza col mondo e ne dà una sua versione. Slava è la solitudine senza radici di cui abbiamo paura, il volto contratto in una smorfia di inquietante sghignazzo che fa rabbrividire e sorprendere a un tempo. L'apolide senza sostanza che trova in un cappotto svuotato l'allegoria del proprio bisogno d'amore. Il surrealista che cavalca la sua poesia tempestosa su un letto di ferro e per remo una scopa, che apre i battenti del tempo per scaraventarsi in un viaggio senza quando né dove. Slava trova la sua laica ascensione in una tempesta di carta e di luce, in una grande, immensa dinamo stellare, piena dei suoi lirismi e delle sue esplosioni, in un grido che ha in sé ogni speranza e tutte le invocazioni. In una cascata di sterminati e colorati palloni.
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