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giovedì 21 ottobre 2010

The Wall

Forse gli appassionati si chiederanno, non senza una certa irritazione, perché io abbia inserito un post su "The Wall", il celebre album dei Pink Floyd, sotto il nome di "Poesia". Forse non se lo spiegheranno e non se ne faranno mai una ragione. Eppure c'è un senso. Quell'album è poesia. Ogni nota è nello stesso tempo idea e significato. Tutto è come un unico strumento come un grido grande ed estremo che dura tutto un fiato. E il muro è un orizzonte. O forse l'orizzonte, una frontiera da abbattere e sfondare. C'è, in ogni brano, l'angoscia crescente dell'ignoto, è come una pulsione viscerale e confusa che spinge all'oltre senza però riuscire a eludere il freno dell'ignoto. Il muro è la fuga e un interrogativo. Is there anybody out there? , recitano le parole. Rimangono senza risposta. Perché in fondo, il muro non è altro che un limite, al di là del quale ci può essere una nuova, soltanto più lontana, prigione. Abbattere il muro è un simbolo, è gettarsi alle spalle un passato in un rinnegamento totale. Ma non significa, automaticamente, scegliere un futuro. Di questo, infatti, non c'è certezza. Tutto è un grande azzardo. Andarsene diventa piuttosto il tentativo di saldare gli affetti del presente rendendoli parte di un nuovo, artificiale passato. E lo si legge tra le righe di Mother in cui si ha la sensazione di un addio essenziale ad una forma altra di amore. Non c'è né disillusione né speranza. Solo azione e rifiuto e desiderio. E l'epilogo ha per musica una pioggia. E nessun arcobaleno.


Pink Floyd - The Wall - Mother

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